1 settembre 2017
INTERVISTA
Il
volume “Gaudenzio Capelli, più direttore che mai!” - curato da
Paolo Castagno e realizzato in occasione del “Premio Papersera”
consegnato il 27 maggio 2017 all'ex direttore di Topolino - fra vari e interessanti articoli - pubblica una intervista fattami da
Gianni Santarelli della redazione del sito Papersera. La riporto qui,
pensando di fare cosa gradita ai miei (pochi) lettori, accompagnata
da alcune immagini.
Silvano
Mezzavilla, nato a Gradisca
di Sedegliano, in provincia di Udine, nel 1944, giornalista,
sceneggiatore, curatore di mostre di fumetti e rassegne
cinematografiche. Tra fine anni ’80 e primi anni del 2000 lascia un
segno profondo nella storia del fumetto
Disney italiano, dando nuovo smalto al personaggio di Topolino con
una serie di storie che rinnovano l’intero universo topolinese e
tracciando la strada che sarà poi percorsa da altri suoi colleghi
Innanzitutto
grazie per aver acconsentito a questa intervista. E’ un vero
piacere poter interagire con uno degli autori più apprezzati dai
lettori. Cominciamo con la più classica delle domande. Lei inizia ad
occuparsi professionalmente di fumetti dal 1974 collaborando per un
giornale veneto. La passione da dove le deriva? Quali sono stati i
fumetti della sua “formazione”?
Sono
io che ringrazio lei e la redazione di Papersera per l'interesse
rivolto alle mie attività nell'ambito del fumetto. Sono
stato affamato di storie e di immagini fin da bambino. Dapprima
contemplavo le figure, poi, quando imparai a leggere, il fumetto mi
permise di accedere ad un immaginario che alimentò la mia curiosità
e la mia fantasia. Nonostante la mia famiglia disponesse di limitati
mezzi economici (i giornalini venivano comprati solo se ottenevo
ottimi risultati scolastici, e quindi raramente), i fumetti in casa
non mancavano. Uno
zio, fan di Tex, di Kinowa e di Gim Toro, periodicamente mi regalava
un bel po' di quegli albetti a strisce che io leggevo non una volta
sola, e poi scambiavo con i compagni di giochi. Così ebbi modo di
conoscere il Vittorioso, l'Intrepido, il Monello, il Pioniere e di
appassionarmi alle avventure di Topolino e Paperino e a quelle di
Akim, del Grande Blek, di Capitan Miki. Successivamente, dal primo
numero e per almeno tre anni, investii la mia paghetta nell'acquisto
de il Giorno dei Ragazzi che pubblicava sia i nuovi personaggi di
Jacovitti, che serie inglesi tra le quali spiccava il
fantascientifico Dan Dare.
Nel
1961 uscì per Mondadori “I fumetti” di Carlo della Corte, primo
saggio italiano dedicato ai comics e io, desideroso di saperne di
più sui personaggi che vi venivano menzionati, cominciai a
interessarmi sia ai classici americani (da Gordon a Popeye, da Brick
Bradford a Dick Tracy) che alla più recente produzione belga e
francese, grazie a conoscenti che andavano spesso da quelle parti.
Fondamentale,
per la maturazione del senso critico e per la consapevolezza del
fumetto come forma d'arte, fu il debutto in edicola del mensile
Linus,
cui via via si affiancarono le riviste Sgt
Kirk
e Eureka,
oltre a varie, pionieristiche fanzine. Si trattò di un evento che
definirei “epocale”: il fumetto fu legittimato culturalmente;
l'estetica e i temi trattati diventarono adulti; gli autori
conquistarono ampia libertà creativa.
Diventai
un assiduo lettore di strip (dai Peanuts a Pogo fino alle
Sturmtruppen), e un ammiratore delle narrazioni di Pratt, D'Antonio,
Battaglia e Buzzelli, della satira di Feiffer e Chiappori, del lavoro
di Guido Crepax che raccontava l'erotismo e la società coeva e nel
contempo apriva alle vignette in sequenza opportunità linguistiche
inedite. Ad
un certo punto, nella mia libreria si poteva trovare non tutto
(perché non sono un collezionista seriale) ma davvero di tutto.
Fu
per questa ragione che nel 1974 il giornalista e mio grande amico
Giancarlo Granziero (purtroppo scomparso nel 2012) mi propose di
curare una rubrica sul fumetto per il settimanale 7
Giorni Veneto
per il quale, allora, lavorava. Fu da lì che iniziò la mia
“avventura” nel mondo del fumetto: ebbi la possibilità di
recensire le ultime novità, di dare notizie sulle ristampe
amatoriali, di conoscere e talvolta intervistare famosi disegnatori.
Tra
gli altri suoi interessi il cinema, intuibile anche dalla lettura
delle sue storie. Quest’altra sua passione, che l’ha portata a
curare diverse rassegne cinematografiche, quali radici ha?
Come
il fumetto, pure il cinema ha avuto un ruolo determinante nella mia
formazione culturale. Direi, anzi, che è la componente fondativa
della mia creatività. Per molti anni sono entrato in una sala
cinematografica almeno una volta alla settimana uscendone con gli
occhi e la mente colmi di immagini e di suggestioni che nemmeno il
tempo avrebbe cancellato. Sono,
dunque, centinaia i film che mi hanno emozionato, divertito, educato,
sedotto, ed è dunque impossibile elencarli tutti. Ci tengo tuttavia
a citare i nomi dei registi che occupano la vetta del mio olimpo a 35
mm – ovvero Federico Fellini, Stanley Kubrick, François
Truffaut, Billy
Wilder, Alfred Hitchcock, Karel Reitz, Tony Richardson, Orson Welles,
Howard Hawks, Milos Forman - ai quali va la mia gratitudine di
spettatore e di autore di storie.
A
vent'anni sognai di emularli. Scrissi la sceneggiatura di una storia
ispirata al “free cinema” inglese e con alcuni amici in veste di
tecnici e di attori iniziammo le riprese. Dopo una settimana, però,
io finii in ospedale per un incidente automobilistico e l'impresa si
arenò. Due
anni dopo andai a vivere Roma dove ebbi varie esperienze nell'ambito
del doppiaggio e come assistente degli sceneggiatori Romano
Migliorini, Gianbattista Mussetto e Roberto Natale.
Nel
1970 mi sposai e tornai a Treviso.
locandina "Cinema e Sport" grafica: Agostino Toscana |
Negli
anni ’70, oltre a Lucca non c’erano altre manifestazioni
significative riguardanti il fumetto. Da dove nasce l’idea di
organizzare Treviso Comics e chi sono stati i suoi compagni di
avventura?
Nacque
nel 1975, proprio dalla constatazione che c'era spazio per un'altra
manifestazione sul fumetto in Italia, data l'effervescenza creativa
che andava caratterizzando quegli anni e il riaccendersi della
passione verso le vignette e i suoi creatori.
La
rubrica che curavo sul settimanale, mi aveva dato modo sia di
conoscere autori ed editori che di avere contatti con appassionati e
collezionisti. Cosicché mi venne naturale l'idea di organizzare
nella mia città un appuntamento annuale dedicato alla nona arte.
Mi
consigliai con Marina, mia moglie, e ne parlai con Granziero, da
sempre mio sodale. Venne redatto un progetto, da cui apparve subito
chiaro che oltre alle nostre belle intenzioni, per concretizzare il
programma erano necessari spazi adeguati e denari.
Chiedemmo
un incontro con l'assessore alla cultura del Comune: questi ci
ascoltò in silenzio; aprì la bocca solo per gelarci affermando che,
secondo lui, “di fumetti, in giro, ce ne sono troppi”. Bussammo
all'ente provinciale per il turismo dove le nostre parole e il nostro
entusiasmo non scalfirono la burocratica indifferenza degli
interlocutori.
manifesto, dis.:Jacovitti |
Lui
non leggeva fumetti da quand'era bambino, ma capì le potenzialità
del progetto e disse, ricordo bene, “si fa, ci penso io!”. Dal
presidente della Camera di commercio, di cui era amico, ottenne l'uso
del salone delle contrattazioni (dove si sarebbe svolta “la mostra
mercato delle novità editoriali e del fumetto d'antiquariato”),
della sala convegni e di un ampio spazio al primo piano, adatto per
le esposizioni; dalla Cassa di risparmio ricevette la promessa di un
contributo.
Il
progetto di Treviso Comics poteva diventare realtà: la prima
edizione si sarebbe svolta dopo sei mesi: il 28 e il 29 febbraio
1976!
Subito
comunicai la novità agli autori che avevo conosciuto, invitandoli a
esporre e a partecipare. Andai a Milano e contattai a un po' tutti
gli editori, ottenendo le adesioni della Cepim (ora Sergio Bonelli
Editore), della Corno e della Dardo. A Roma incontrai Rinaldo
Traini, direttore del Salone di Lucca e titolare della Comic Art,
Camillo Conti, che ristampava antichi lavori di Jacovitti e di
Craveri, e Franco Grillo fondatore dell'Anaf - Associazione nazionale
amici del fumetto. Grillo
diede un notevole apporto organizzativo: informò gli associati,
dando loro appuntamento a Treviso; coinvolse antiquari ed editori
amatoriali; ottenne da Jacovitti l'autorizzazione a usare un suo
disegno come manifesto del festival. Intanto,
Granziero, aiutato da Mariagrazia Raffele, giovane redattrice di 7
Giorni Veneto, curava la promozione e l'ufficio stampa.
I
consigli e l'amicizia di Piero Zanotto e Gianni Brunoro (allora e per
tutti gli anni successivi) ci furono molto preziosi.
Le
due fatidiche giornate di febbraio infine arrivarono. E
alla Camera di commercio arrivò una folla, superiore alle nostre più
rosee aspettative, composta da vecchi e giovani fan e da tanta gente
incuriosita. Tennero “a battesimo” Treviso Comics, grandi firme
come Altan,
Dino
Battaglia,
Bonvi,
Guido
Buzzelli,
Renato
Calligaro,
Giorgio
Cavallo,
Guido
Crepax,
Gianni
de Luca,
Ruggero Giovannini, Sergio Toppi. Nel
pomeriggio dell'ultimo giorno ci fece visita Romano Scarpa.
Treviso
Comics si è svolta per quasi trent’anni, dando spazio fin da
subito ai maggiori autori italiani (Battaglia, De Luca, Pratt, Toppi
per citare solo i primi che vengono in mente) e poi anche artisti
stranieri, con grande risposta del pubblico e attestati di stima
anche da istituzioni e politica. Quando avete iniziato immaginavate
che avrebbe avuto questo successo?
L'esito
estremamente positivo della prima edizione ci obbligava a progettare
il futuro con un'offerta culturale che caratterizzasse il più
possibile il festival. Alla ricerca della formula vincente, dal 1977
al 1978 concepii un programma composto da tre sezioni espositive:
una dedicata alla storia del fumetto, la seconda rivolta alla
contemporaneità, l'ultima come ribalta per giovani professionisti.
Pertanto,
muovendoci da queste linee guida, a Treviso Comics Due il pubblico
poté ammirare sessanta tavole originali di maestri americani degli
anni trenta e quaranta, la personale dell'artista spagnolo Victor de
la Fuente, e una “collettiva” che comprendeva Giorgio Cavazzano,
Milo Manara, Enzo Marciante, Paolo Ongaro, Silver. Nell'edizione
successiva proponemmo una mostra di “Images d'Epinal”, per la
prima volta in Italia, la personale di Gino D'Antonio, e (ancora in
anteprima assoluta) una panoramica sulle “donne autrici di
fumetti”, con protagoniste Lina Buffolente, Cecilia Capuana, Mara
della Torre, Cinzia Ghigliano, la francese Annie Goetzinger e Grazia
Nidasio.
A
Treviso Comics Quattro, essendo il 1979 l'anno internazionale del
bambino, la mostra più ampia fu quella con decine di tavole di
piccoli eroi del fumetto - da Buster Brown a Yellow Kid ai Peanuts -
affiancata dalla personale di Luciano Bottaro e da un omaggio agli
illustratori italiani e stranieri di Robinson Crusoe.
manifesto, dis.: Cecilia Capuana |
Treviso
Comics diventò monografica e assunse un titolo diverso ad ogni
edizione, in modo da evidenziare il tema trattato.
L'esordio,
coincise con i settantacinque anni dalla morte di Jules Verne, autore
di “straordinarie avventure” anticipatrici di future scoperte
scientifiche. Risultò una mostra colossale. Tavole di fumetti
ispirati a opere verniane firmate da autori italiani e stranieri affiancavano
ottocenteschi volumi editi da Hetzel, romanzi nelle lingue più
varie, celebri illustrazioni, perfino oggetti appartenuti allo
scrittore di Nantes.
L'exploit
fu pari alle mie aspettative: di Treviso Comics non parlarono solo i
giornali di settore, ma soprattutto i grandi quotidiani nazionali e i
più popolari settimanali da Oggi a Amica, con articoli ampi,
dettagliati ed encomianti.
Il
successo ci entusiasmava (per ci
intendo lo staff organizzativo, denominatosi Circolo Amici del
Fumetto e allora formato da Giordano Anselmi, Giancarlo Granziero,
Mariagrazia Raffele, Marina Corsetti e da me), ma avvertivamo che la
limitatezza dei mezzi a disposizione avrebbe reso difficile se non
impossibile architettare un'altra edizione.
Inaspettatamente
ci venne in soccorso un assessore comunale.
Non
quello alla cultura, bensì l'assessore al commercio, che prese
l'iniziativa di parlare della mostra a Luciano Benetton, suo amico
fin dall'infanzia.
Io
e Anselmi incontrammo il noto imprenditore della maglieria nella
villa veneta alla periferia della città. Gli
parlai di fumetti e gli descrissi cosa avevamo fatto e cosa
intendevamo fare; lui prese appunti e disse che aveva bisogno di
qualche giorno per maturare la decisione.
Quattro
giorni dopo venni contattato da Franco Giacometti, titolare di
un'agenzia di comunicazione, creatore del marchio aziendale e
portatore della risposta: la Benetton ci avrebbe sponsorizzato per le
successive tre edizioni! In quell'arco di tempo i risultati ottenuti
dalla Rassegna grazie ai mezzi ora messi a disposizione, avrebbero
indotto gli enti pubblici a erogare finanziamenti adeguati.
La
sponsorizzazione prevedeva lo progettazione e la realizzazione di
tutte le strutture, dai pannelli espositivi ai box degli editori, la
stampa di oltre duecento ingrandimenti fotografici di vignette e
tavole, la produzione di un catalogo (3000 copie!) brossurato e di
oltre cento pagine, la cura totale dell'immagine grafica dell'evento,
dai manifesti al materiale pubblicitario.
La
mostra si intitolò “Vivere insieme, viaggio nella coppia a
fumetti” e utilizzò binomi fumettistici per raccontare,
descrivere, parodiare le coppie in carne e ossa fatte da un lui e una
lei, da un lui e un lui, da un lui e...
La
collaborazione della Benetton durò quattro anni, anziché i tre
previsti, durante i quali i temi furono “l'iconografia rosa”, “i
fumetti degli anni sessanta”, “Il 1934”. Nel
1985 il Comune divenne (finalmente) il principale sostenitore della
Rassegna, assieme alla Provincia e alla Regione.
“Nuvole
maliziose”, titolo della decima edizione, faceva riferimento ai
sette peccati capitali, che nei fumetti avevano innumerevoli adepti.
Ottenemmo
il patrocinio del presidente della repubblica.
Il
giorno prima dell'inaugurazione ricevetti un telegramma; diceva:
“All'apertura
del decimo Treviso Comics, sono lieto di esprimere il mio
apprezzamento e il mio augurio più cordiale agli organizzatori, a
quanti hanno collaborato all'allestimento, al vasto pubblico degli
appassionati e dei visitatori. In dieci anni di intelligente e attivo
impegno questa rassegna ha saputo conquistarsi uno spessore culturale
e un rilievo che trascendono l'ambito nazionale e, tra l'altro,
testimoniano dell'interesse che il pubblico nutre verso una forma
espressiva vitale e ricchissima. Cordialmente, Sandro Pertini”.
Successivamente
i temi furono il rock, la pubblicità, il cinema, la moda...e qui
mi fermo per non tediare. Invito, tuttavia, chi fosse interessato a
conoscere i dettagli di una storia conclusasi del 2003, a visitare il
sito www.trevisocomics.it
e a consultare la voce Treviso Comics di Wikipedia.
manifesto, dis.: Silver |
Fin
dalle prime edizioni la manifestazione si orienta verso una formula
originale rispetto ad altre simili: non più un week-end o comunque
pochi giorni di durata, ma una settimana, due, in alcuni casi persino
tre. Una filosofia diversa quindi, la possibilità di vivere
l’evento , di immergervisi: una formula dettata dalla volontà di
raggiungere un pubblico più vasto e magari avvicinare anche un
pubblico nuovo?
Ritenevamo
che la personale di un disegnatore o una collettiva non dovessero durare lo spazio di un week end, come per la “mostra mercato”. Ci
consideravamo dei divulgatori culturali; volevamo coinvolgere un
pubblico più ampio, eterogeneo, e permettergli di conoscere e di
apprezzare l'arte dei creatori di fumetti.
Per
raggiungere questo obiettivo, tre giorni non erano sufficienti. Le
esposizioni (per di più allestite con ingenti investimenti e
fiancheggiate da un catalogo che coinvolgeva i più noti critici del
settore) meritavano di essere visitate per almeno due settimane,
addirittura tre, come gesto di rispetto verso gli artisti. Ad essi e
ai loro lavori era dedicata la Rassegna.
In
oltre venticinque anni di attività, hanno esposto e sono stati
ospiti di Treviso Comics, decine e decine di disegnatori, autentiche
star del comicdom nazionale e internazionale, di cui è impossibile
riportare qui l'elenco.
Ciò
che mi rende particolarmente orgoglioso è l'aver, molto spesso,
reso protagonisti delle mostre di Treviso Comics, talentuosi artisti
prima sconosciuti nel nostro paese, o che mai erano stati invitati ad
esporre in Italia. Penso, tra gli altri, a
Lewis Trondheim e Jean-Christophe
Menu, a
Gérard Lauzier, Ever Meulen, Miguelanxo Prado, Jean Claude Gotting,
Gilbert Shelton, Federico del Barrio, Miguel Calatayud, Carlos Nine,
Leo Baxendale, Frank Margerin, Joost Swarte, Theo Van den Boogaard,
Dave McKean, John Bolton, Don Lawrence.
Tutti
- italiani e stranieri, esordienti nella professione e autorevoli
“maestri”, giovani o anziani, famosi o sconosciuti al grande
pubblico - ricevevano la medesima attenzione, il medesimo affetto e
il medesimo premio: una piastrella incorniciata con riprodotto il
logo della specifica manifestazione.
Con
molti di essi mantengo ancora oggi, a tanti anni dalla chiusura della
Rassegna, rapporti di simpatia e di amicizia. Che considero il
lascito più prezioso di Treviso Comics.
da "Rifle Sam", Skorpio |
Quasi
contemporaneamente all’attività di curatore, inizia a scrivere
sceneggiature per fumetti per testate della Dardo e dell’Eura. Può
raccontarci qualcosa di questi suoi primi passi da sceneggiatore? Con
quali disegnatori ha lavorato?
Avevo
parlato delle mie trascorse esperienze cinematografiche col
disegnatore Paolo Ongaro, che era in procinto di iniziare una
collaborazione con il quindicinale Uomini
e guerra
della Dardo.
Quando
gli ideatori della rivista parteciparono alla prima edizione di
Treviso Comics, Ongaro fece loro il mio nome. Terminato il festival,
scrissi una storia ambientata durante la prima guerra mondiale sul
monte Grappa, che venne accettata. A
quella seguirono altre due: tutte illustrate da Ongaro.
Qualche
mese dopo presi contatto con l'Eura e realizzai un racconto western dal titolo "Rifle Sam", che venne disegnato da un autore di cui non ho mai saputo il nome.
Nel contempo mi vennero chiesti altri soggetti, anche per
fotoromanzi, ma l'organizzazione di Treviso Comics, impegnativa e
molto coinvolgente, mi lasciava poco tempo. Avendo inoltre iniziato
una collaborazione col quotidiano Il
Mattino
di Padova dovetti accantonare l'attività di sceneggiatore.
Momentaneamente, pensavo...e passarono otto anni.
Nella
seconda metà degli anni 80 comincia la sua attività con Disney (le
cui pubblicazioni italiane erano edite dalla Mondadori). Come è nata
questa collaborazione?
Fu
Giorgio Cavazzano a esortarmi a “tornare in scena” e a scrivere
per Topolino.
Elaborai
una storia con protagonista Paperino che gli piacque e che mi invitò
a inoltrare alla redazione: se fosse stata accettata, cosa della
quale era convinto, avrebbe fatto in maniera di disegnarla lui
stesso.
Dieci
giorni dopo ero in viaggio per Segrate; andavo a incontrare Massimo
Marconi, responsabile sceneggiature, e per parlare del compenso col
direttore Gaudenzio Capelli. Di li a poco sarei entrato nel “magico
mondo” della Walt Disney: wow!
La
sua prima storia Disney (pubblicata), “Paperino e la penuria
ferrosa” è forse poco nota eppure è molto ben riuscita: un
Paperino molto dinamico e coraggioso il giusto, una trama
fantascientifica classica ma efficace, una eroina che non si
dimentica, un Paperone ben caratterizzato nella sua breve
apparizione… Non si direbbe l’opera di un esordiente con questi
personaggi!
E'
una storia di fantascienza ecologica con un pizzico di romanticismo,
in cui volevo trasparissero tracce di riferimenti a "Paperino e
l'avventura sottomarina", scritta da Rodolfo Cimino e al romanzo "Gli
anni della fenice" di Ray Bradbury (che diventò un grande film
diretto da Truffaut col titolo "Fahrenheit
451"). Pure
qui, al fianco di un Paperino audace e avventuroso, c'è una
romantica figura femminile verso la quale Paperino prova un certo
trasporto, e una piccola comunità che, invece di salvare i libri
imparandoli a memoria, cerca di mettere in salvo la natura del
proprio pianeta, minacciato da robot intenzionati a lastricarlo di
metallo.
La
sua seconda storia, “Topolino e il mistero della voce spezzata”
arriva dopo quasi quattro anni ed è quella che probabilmente la
maggior parte dei lettori associa al suo nome. Può raccontarci
qualcosa sulla sua genesi?
Da
parecchi anni avevo nel cassetto un soggetto ispirato alla serie "Ai
confini della realtà", andata in onda negli anni sessanta, dove
narravo di una telefonata che impiegava un anno ad arrivare a causa
di un evento atmosferico. Nel
1978 l'avevo proposto a Franco Fossati, allora redattore del
settimanale Supergulp! che però chiuse pochi mesi dopo.
Nel
1990 decisi di recuperare la trama e di ristrutturarla radicalmente
mettendo come protagonista Topolino, il personaggio dei fumetti
disneyani che più amavo grazie alle storie di Merrill De Maris e
Floyd Gottfredson e di Romano Scarpa. Alla fine, raccontai (al
telefono!) la storia a Giorgio e a Marconi, editor sempre disponibile
al dialogo con gli autori oltre che abile sceneggiatore. Ambedue ne
furono entusiasti.
Eravamo
tutti certi che “Topolino e il mistero della voce spezzata”
sarebbe risultato un fumetto memorabile!
Le
suggestioni del racconto vennero splendidamente tradotte, e molto
spesso amplificate, dalla regia grafica di Cavazzano, la cui
genialità si evince fin dalla prima tavola. Nella mia sceneggiatura
l'ambiente, notturno e battuto dalla pioggia, era descritto in due
vignette; lui, invece, raccolse tutti gli elementi in esse contenuti
e inventò una sola, grande inquadratura capace di catturare
l'attenzione del lettore e di trascinarlo in un'atmosfera che già si
preannunciava carica di suspense.
Il
vento, il temporale, la cabina telefonica, l'asfalto bagnato, la
strada in salita, erano segni premonitori di un mistero incombente.
All’epoca
la storia ebbe un impatto notevole, contribuendo a rilanciare il
personaggio del Topolino-detective. Furono prodotti gadget, venne
lanciata una nuova testata a tema (“Topomistery”), vignette e
immagini tratte dalle sue tavole campeggiavano ovunque… Cosa ha
pensato davanti ad un effetto tanto dirompente?
Sinceramente,
sapevo che la storia, particolare e lontana da quelle che da tempo
venivano pubblicate sul settimanale, avrebbe “fatto colpo”, ma
non mi aspettavo una simile riverbero. Ne ero inorgoglito: un fumetto
mio e di Giorgio stava riaccendendo l'interesse del pubblico per
storie gialle, misteriose, noir interpretate da Topolino.
“La
voce spezzata” arriva in un momento difficile per Topolino. La
caratterizzazione del personaggio era ormai adagiata su dei comodi e
fastidiosi stereotipi, soprattutto in tema di gialli dove raramente
le vicende riuscivano a risultare coinvolgenti. Avvertiva anche lei,
come noi lettori di allora, la necessità di una robusta sterzata
nelle sue avventure?
Penso
che “La voce spezzata” abbia contribuito a una svolta nella
produzione di avventure topolinesche. Con quella, come in tutte le
mia storie successive, ho cercato di restituire a Topolino quella
simpatia, quell'acume, quella “umanità” che gli appartenevano
fin dalle origini e che molte volte in quegli anni, vicende insipide
e detection banalotte avevano dissipato.
Amo
le avventure di Topolino nelle quali gli viene data la possibilità
di manifestare appieno il carattere che lo ha reso universalmente
famoso. Topolino è perspicace, arguto, impavido, scanzonato,
romantico...soprattutto curioso.
A
differenza di quanto capita a molti di noi, è diventato adulto senza
perdere l'abitudine propria dei bambini di porre e soprattutto di
porsi domande sul perché delle cose. Lui non si accontenta di
risposte superficiali; istintivamente è portato a frugare nel
profondo, a individuare e capire le cause piuttosto che subire gli
effetti. Quando
deve penetrare nei labirinti più inquietanti, la curiosità è il
filo d'Arianna che mai lo abbandona e che, alla fine, gli da la forza
per districare gli enigmi e i misteri.
Tra
gli elementi che hanno contribuito a rendere questa storia un
classico fin dall’uscita, oltre all’ambientazione dichiaratamente
hard-boiled c’è sicuramente il look di Topolino, con impermeabile
e cappello di ordinanza, come un Marlowe disneyano e che come tale si
comporta, indagando da solo. L’idea di abbigliarlo in questo modo è
sua o anche Cavazzano (autore dei magnifici disegni) ha contribuito?
Con
la scusa della pioggia ho fatto indossare a Topolino l'indumento che
caratterizza l'investigatore. In una vignetta di tavola 8 scrivevo: “Topolino,
con impermeabile stile Bogart che indosserà per gran parte della
storia, avanza verso...”.
Poi è stato Cavazzano a mettergli in testa il cappello con la falda
alzata che fa assomigliare il nostro eroe non solo a Bogart, ma anche
a Alan Ladd nel film "Il Fuorilegge" e a Robert Mitchum in "Marlowe, il
poliziotto privato", attori paradigmatici del genere hard-boiled.
Ne
“la voce spezzata”, nella successiva “Topolino e l’enigma del
faro” e in qualche misura anche in altre sue storie, sembrano
fondersi due scuole del giallo: ambientazioni, psicologie,
caratterizzazioni prese appunto dal giallo americano, unite alla
indagine minuziosa con tanto di “passerella” finale del detective
che può illustrare tutto il suo ragionamento e svelare il colpevole
tipiche del giallo classico. Si è ispirato a qualche autore del
passato (penso allo Scarpa de “L’unghia di Kalì” ad esempio) o
è stata una sua scelta deliberata?
Ho
amato molto “L'unghia di Kalì” per l'originalità della trama,
per la caratterizzazione dei protagonisti, per il finale davvero
inaspettato.
E'
certamente un capolavoro e un riferimento imprescindibile per chi
scrive, disegna o legge Topolino. La mia speranza è di essere
riuscito, almeno qualche volta, a ottenere quella stessa magica
alchimia.
Anch'io,
emulo di Romano Scarpa, ho intrecciato il thriller e
l'investigazione, il giallo d'azione e il giallo ad enigma. Inoltre,
per emozionare, divertire, meravigliare i lettori, non ho esitato a
utilizzare characters rubati a vecchi gangster movies e a chiedere
aiuto (aiotto! aiotto!) a John Dickson Carr, a Dashiell Hammett, a Ed
McBain, a Donald Westlake e agli altri romanzieri che mi hanno
insegnato le regole del giallo.
Un
esperimento riuscito è stato quello di promuovere a protagonisti
personaggi che nascono come spalle: Gambadilegno (di cui ha esplorato
il rapporto quasi simbiotico con Topolino) Manetta, Basettoni grazie
a lei acquistano una dimensione diversa e la sua lezione farà scuola
per altri autori. Come ha capito che questi character avevano le
potenzialità per reggere storie importanti da soli, senza Topolino?
Gamba,
Basettoni, Manetta (e altri) da decenni recitano al fianco di
Topolino e, con le loro caratterizzazioni, offrono al mattatore
l'opportunità di riscuotere applausi a scena aperta. Sono degli
attori con i fiocchi. E' quindi naturale che gli capiti di calcare
altri palcoscenici dove passare dal ruolo di spalla a quello di
primattori. Io, intenzionato a mettere in luce questa loro
particolare dimensione, ho deciso di seguirli, di conoscerli meglio e
di documentarne le performances. Nella mia seconda storia gialla, ad
esempio, mi sono dedicato completamente a Gambadilegno, andandogli
dietro dappertutto, anche sui “luoghi di lavoro”. Si, è un tipo
poco raccomandabile, un professionista del crimine, un ladro
matricolato, ma quasi sempre fatica a quadrare il bilancio
famigliare. Sogna di realizzare il colpo del secolo, e finisce in un
supermercato a sgraffignare l'occorrente per la cena. Quando torna a
casa, la sua compagna, Trudy, cerca di consolarlo, di ridargli
fiducia, ma sul tavolo si vanno ammonticchiando le fatture da pagare.
Ecco,
nonostante tutto, nonostante la fedina penale non immacolata, sono
state proprio le sue défaillance a rendermelo simpatico, a farmi
affezionare a lui. Mi ricordava un personaggio di Donald Westlake:
John Archibald Dortmunder. Anche
lui condivide l'appartamento con l'eterna fidanzata, May Bellamy,
anche lui è un rapinatore, anche lui pianifica dei colpi che
finiscono male, anche a lui - come a Gamba in "Ritorno a Legcity" e in "Il Tesoro di Ululoa" - capita di diventare l'inconsapevole pedina di
qualcuno che trama nell'ombra.
Che
i progetti criminali possano andare in fumo è un rischio che Gamba è
disposto a correre, fa parte del mestiere. Ciò
di cui non può fare a meno è vedere Topolino che corre alle sue
spalle nel tentativo di brancarlo. E' il loro pezzo forte, è il
leitmotiv finale di tante scaramucce.
La
notte in cui due gangster venuti da fuori hanno compiuto Il rapimento
di Topolino, Gamba è andato a letto contento. Il giorno dopo però
gli è venuto il magone: se qualcuno aveva il diritto di rapire
l'acerrimo nemico quello era lui! Cosa sarebbe Gamba senza il
topastro? Chi si interesserebbe più alle sue imprese?
Dunque,
infila l'impermeabile (bogartiano) e parte, sulle tracce della
concorrenza.
Nel
quarto racconto giallo ("Basettoni e il grande caldo") porto in scena Basettoni e Manetta.
A
Topolinia è estate e fa un caldo torrido (il clima condiziona spesso
i comportamenti dei personaggi nelle mie trame).
Manetta,
grondante sudore, passeggia in maniche di camicia; il commissario, in
sandali e pantaloncini, annaffia il giardino e in frigo ha una
anguria da spartire con il collega.
A
perturbare la quiete provvede un essere misterioso che minaccia di
mettere fuori uso l'acquedotto e far schiattare di sete la
popolazione.
Toccherà
ai due poliziotti, grassottelli e di mezza età (Topolino è in
vacanza al polo nord), venire a capo della faccenda e dopo acrobazie,
ruzzoloni, corse con l'acceleratore a tavoletta, scazzottate e
bernoccoli, mettere al fresco il cattivone e la sua complice.
Clap
clap clap a tutta la compagnia!
Lei
ha collaborato con la Disney nell’ultima parte della direzione
Capelli, attraversando poi il passaggio di editore e quindi vivendo
anche la direzione Cavaglione e parzialmente quella della Muci. Può
raccontarci qual era il suo rapporto con Capelli (se lo conosceva) e
più in generale con la redazione? Ci sono dei ricordi particolari
che vuole condividere con noi?
Come
scrissi in una precedente risposta, conobbi Capelli nel 1986, in
occasione della mia prima volta a Segrate. Fu un incontro di breve
durata: mi comunicò l'entità del compenso e poi uscì per
partecipare a una riunione con dei boss della Mondadori. Invece
chiacchierai per più di un'ora con Marconi e con Giacomo Rosella, il
caporedattore. Ebbi
modo di dialogare con Capelli qualche anno dopo, quando i periodici
Disney avevano lasciato la Mondadori per entrare in Disney e si erano
trasferiti prima in via Hoepli e poi in via Dante. Ricavai
l'impressione di una persona gioviale e disponibile; mostrava stima
nei confronti miei e del mio lavoro, cosa molto gratificante per un
collaboratore.
Nel
1994, col numero 2000, Capelli andò in pensione e il suo posto venne
occupato da Paolo Cavaglione. Invece
di andare io a Milano a incontrarlo, fu lui che venne nella mia città
per conoscermi e per visitare la personale di Giorgio Cavazzano, da
me curata, che era il clou dell'edizione autunnale di Treviso Comics. Durante
la sua conduzione del settimanale, vennero messe in cantiere varie
nuove serie. La prima - PKNA (Paperinik New Adventures) - fece il suo
debutto in una mostra allestita in occasione della 21ma edizione
della Rassegna trevigiana.
Nel
2011 io non collaboravo più con Topolino;
lui, che dal 2000 era Direttore generale dei periodici dell' Editrice
Quadratum, mi invitò a scrivere delle novelle per la rivista
Intimità. Un gesto d'autentica amicizia.
Infine,
Claretta Muci. Impossibile restare indifferenti alla sua simpatia e
al suo entusiasmo.
Voi
autori, come avete vissuto il cambio non solo dei direttori ma anche
dell’editore? Ci sono stati dei cambiamenti avvertibili in tema di
linee e contenuti editoriali?
Forse,
i disegnatori e i soggettisti che vivono a Milano o nei paraggi,
avendo la possibilità di frequentare la redazione e magari di
instaurare dei rapporti confidenziali con i redattori, possono venire
a conoscenza di cambiamenti di direttori o dei contenuti del
settimanale. Io - come altri che abitano in giro per l'Italia e a
Milano vanno raramente - dei mutamenti nelle dinamiche aziendali o
delle strategie editoriali ho saputo leggendo il colophon o l'indice
di Topolino.
La cosa che m'importava era la permanenza o meno di buoni rapporti
professionali e umani.
Ha
molto spesso privilegiato nelle sue storie tematiche abbastanza
serie, sicuramente più adulte della media. Seppur mitigati comunque
dal contesto disneyano, ha trattato temi e argomenti “scomodi”,
dai sequestri di persona al tempo che passa e molti altri. Ha mai
avuto problemi a far accettare qualche sua storia o ha dovuto
cambiare qualcosa per permetterne la pubblicazione?
C'erano
già tanti colleghi bravissimi nel creare vicende umoristiche:
sarebbe stata dura competere con loro. Mi sono ritagliato uno
spazietto nell'ambito dell'avventura e dell'investigazione, dove i
personaggi finiscono in vicende misteriose e problematiche che li
obbligano a mettere in mostra intelligenza, coraggio e simpatia,
insomma, la loro personalità.
Ovviamente,
come per le frittelle, non tutte le trame “riescono col buco”.
Succede che il soggettista, abbagliato dalla propria creatività,
ritenga di aver inventato una storia ineccepibile e non si avveda di
incongruenze e controsensi. E' capitato a tutti e, dunque, anche a
me.
Ma
gli editor, in Disney come nelle altre case editrici, sono lì
apposta, per individuare le pecche, per collaborare con l'autore a
ristrutturare la storia o per scartarla, ovviamente fornendogli le
motivazioni. L'una e l'altra opzione fanno parte della normale
dialettica in questo tipo di rapporto professionale.
Quando
scrivo una sceneggiatura, cerco sempre di entrare nei personaggi, di
identificarmi con loro per trasferirne sulla carta, in maniera
verosimile, comportamenti, pensieri e parole. Con i characters
disneyani, a forza di frequentarli, mi è venuta la voglia di andare
a frugare nel loro passato e scovare (inventare) fatti e segreti,
utili come materiale narrativo col quale suscitare l'interesse dei
lettori.
Scoperto
che il desiderio di ritrovare l'orsacchiotto di quand'era un
pargoletto aleggiava da sempre nelle mente di Topolino (è
documentato in “Topolino e la Villa dei Misteri”), sono passato a
“psicanalizzare” Gambadilegno, storico antagonista del nostro,
per capire la ragione della sua attitudine al crimine. Due pagine
prima che "Topolino e il mostro oscillante" giungesse alla parola FINE
l'ha confessata lui stesso.
Nessuno, quand'era bambino gli ha
raccontato le favole!
Un
trauma infantile, proprio come Topolino!
Nella
fanciullezza di una personaggio al margine – Manetta – avrei
voluto curiosare, ma non ne ho avuto il tempo. L'ho però forzato a
togliere le gambe dalla scrivania, a mostrarsi intrepido e
spericolato per braccare il Signore delle Macchine (“Basettoni e il
grande caldo”), finanche a prendere le redini delle indagini,
quella volta che il commissario andò in vacanza (“Topolino e il
week end col gatto”). Ho messo il suo nome nel titolo di una
avventura (“La banda di Manetta”) perchè ne era la vedette:
sventava il rapimento di una affascinante attrice hollywoodiana e per
di più ci rivelava che da giovanotto aveva suonato il contrabbasso
in una jazz band (perchè i flemmatici piedipiatti non dovrebbero
avere il ritmo nel sangue?)
Se
c’è una certezza nelle storie Disney è che di Topolino ci si può
fidare. Con “la sindrome visionaria” lei spazza via anche questo
assioma. Per ricordare un Topolino così in difficoltà, dove anche
il lettore arriva a dubitare di lui, bisogna forse tornare indietro
di quasi mezzo secolo ai tempi del “doppio segreto di Macchia
nera”. E non si è fermato qui: oltre a farlo passare per pazzo, lo
ha fatto rapire, lo ha coinvolto in casi pericolosi,… perché
“tormentarlo” così?
Non
l'ho mai tormentato, lo giuro! Non è colpa mia se, invece di
lasciare nell'armadio l'impermeabile bogartiano, invece di piazzarsi
davanti al televisore, sprofondato in poltrona, partiva in quarta
appena gli prospettavo un rompicapo, deciso a sbrogliare la matassa.
Io dovevo solo seguirlo per registrare gli avvenimenti in bella
scrittura, come ogni bravo cronista.
Il
fatto è che lui è un tipo in gamba, assennato e circospetto, ma i
pericoli si annidano ovunque e i guai sono i compagni di strada degli
investigatori. Molte volte si è azzuffato con qualche tipaccio, le
ha date e le ha prese, ma poi tutto finiva con l'avversario ko e con
l'applauso degli astanti.
Durante
la “sindrome visionaria”, però, si è beccato i fischi e i buuu.
Doveva
pur succedere, prima o poi. Anche ad altri “eroi” dei fumetti
(Dick Tracy e Spiderman, tanto per fare due esempi) è capitato di
finire nella polvere del discredito. Ma è una cosa che dura poco,
giusto una sequenza, appena una manciata di pagine.
Topolino,
con un guizzo dell'intelligenza, scoprì l'intrigo e sciolse i nodi
della faccenda! Quella volta lo feci uscire di scena gongolante,
soddisfatto di sé. Se lo meritava.
“Topolino
e il week-end col gatto” è la mia preferita fra i suoi noir. Anche
qui un espediente narrativo insolito (il ritorno di un nemico che in
realtà i lettori non hanno mai conosciuto, come pure accadrà ne “Il
mistero di pupazzo di neve”), un ladro ispirato ai tanti
inafferrabili della narrativa, da Rocambole a Simon Templar, ma la
vicenda ben presto si affranca dalla trama gialla per diventare
qualcosa d’altro. Parlando di rispetto (tra il fuorilegge e il
detective) e di orgoglio, si arrivano a toccare temi importanti come
la nostalgia, il trascorrere del tempo, la vecchiaia. Cosa l’ha
ispirata per una storia così delicata?
Volevo
allontanarmi dal cliché Topolino vs. Gambadilegno. Cercavo un altro
avversario, uno che costringesse il nostro eroe a una caccia
spietata.
Tra
un nuovo cattivone cui far mettere radici nelle vignette e una
meteora avvistata una sola volta e scomparsa dopo aver lasciato
un'indimenticabile scia, ho scelto la seconda opzione.
Sono
andato nel passato e vi ho trovato un tizio che con Topolino aveva
duellato in un'avventura mai balzata agli onori delle cronache
(chissà quante altre hanno avuto lo stesso destino!).
Non
so dire che razza di animale antropomorfo fosse; indossava una
calzamaglia nera, era magro e agilissimo, compieva i furti di notte
saltando di tetto in tetto con movenze feline (la citazione di
“Caccia al ladro”
di Hitchcock è voluta), sul volto portava una maschera che
corrispondeva al suo nome: Il Gatto!
Tornato
in libertà, pagato il debito con la giustizia, si allontana per
sempre dalla città ma prima vuole riappropriarsi della propria
identità e lasciare a Topolino delle tracce di sé: esili souvenir
che legano il passato al presente, ricordi destinati a rimanere,
incancellabili, nella memoria.
“La
sindrome visionaria” non ha le atmosfere notturne e cupe di altre
sue avventure, anzi c’è un’ambientazione familiare, quasi
bucolica e per questo risulta ancora più inquietante. In qualche
modo ha dei toni hitchcockiani. Ma un taglio cinematografico è
rilevabile in quasi tutti i suoi lavori. In che modo la sua passione
e la sua conoscenza del cinema hanno influenzato la sua scrittura?
Moltissimo,
come ho già avuto modo di dire. Scrivo le sceneggiature come se la
vicenda narrata finisse poi sulla pellicola di una macchina da presa.
I
tagli delle inquadrature, le prospettive, le espressioni dei
personaggi e soprattutto le atmosfere che suggerisco ai disegnatori,
derivano da quella mia passione.
C'è
l'eco dei film che amo in quasi tutte le mia storie. Qualche titolo
l'ho ricordato nel corso di questa intervista, altri possono essere
facilmente individuati dai lettori.
Lei
ha lavorato con alcuni dei più grandi disegnatori Disney: Cavazzano
su tutti, ma anche De Vita, Scarpa e poi altri che grandi lo
sarebbero diventati a breve come Mottura, Camboni,… e sempre
l’abbinamento storia-disegnatore si è rilevato azzeccato. Ad
esempio non credo sia un caso che Scarpa abbia illustrato la più
scarpiana fra le sue storie. La scelta del disegnatore è stata
sempre frutto della redazione, ha avuto anche lei voce in capitolo o
a volte sono stati gli stessi disegnatori a chiedere di poter
lavorare con lei?
E' la redazione che, doverosamente, decide a chi assegnare il compito di illustrare una sceneggiatura. I disegnatori disneyani sono tutti degli ottimi professionisti, per cui credo che la scelta cada su chi è libero in quel momento: risulterà in ogni caso azzeccata.
E' la redazione che, doverosamente, decide a chi assegnare il compito di illustrare una sceneggiatura. I disegnatori disneyani sono tutti degli ottimi professionisti, per cui credo che la scelta cada su chi è libero in quel momento: risulterà in ogni caso azzeccata.
Io,
più che la voce in capitolo, ho avuto la fortuna di essere amico di
Cavazzano, di abitare a mezz'ora di macchina da casa sua e di averlo
reso partecipe delle mie trame, fin dal loro nascere.
Molte
volte ha chiesto e ottenuto di essere lui a disegnarle.
Così,
di tanto in tanto, andavo a trovarlo, ad assistere al suo lavoro
certosino, a fissare la matita intenta a ricamare immagini sui fogli
che di li a poco Sandro Zemolin avrebbe inchiostrato.
Romano
Scarpa abitava a Venezia (a mezz'ora di treno da casa mia). L'avevo
intervistato nel 1975 ed ero solito telefonargli per invitarlo a
Treviso Comics o per fargli gli auguri di buon anno, ma non mi era
mai passato per la testa di andarlo a importunare con le mie storie. Tuttavia
fu al suo stile grafico che pensai nello sceneggiare "La sindrome
visionaria", in cui veniva citata Zia Topolinda, personaggio da lui
creato in "Topolino
e la collana Chirikawa".
Mandai
il mio testo a Ezio Sisto, caporedattore sceneggiature,
accompagnandolo con una prece: che venisse disegnato da Romano
Scarpa! Una decina di giorni dopo fu proprio il maestro a
telefonarmi. Aveva
ricevuto la sceneggiatura, l'aveva letta, gli era piaciuta e adesso
mi chiamava per dirmi che iniziava a disegnarla quello stesso giorno.
Da
quel momento lo sentii spesso; man mano che terminava le matite, mi
mandava le fotocopie delle tavole - che ancora conservo. Intervenne
solo su una sequenza, modificandola un po', ovviamente in meglio.
Quando "La Sindrome visionaria" debuttò sul numero 2152, mi telefonò. La
puntata era stata pubblicata alla fine del libretto, per ultima!
Si
sentiva offeso: la sua firma e la storia non meritavano quel
trattamento!
Il
disegnatore con cui ha lavorato di più è stato Cavazzano, una
collaborazione che evidentemente va oltre il semplice ambito
lavorativo. Lo stesso disegnatore veneziano recentemente l’ha
ringraziata per avergli “fatto capire le potenzialità dei
personaggi attraverso l’interpretazione cinematografica”. Come
nasce questo rapporto tra lei e Cavazzano, rapporto che si intuisce
umano e di amicizia ancora prima che professionale?
Una
delle tante qualità di Giorgio è la generosità: lo si capisce
dalla dichiarazione che lei ha riportato. Ricevere il suo
apprezzamento per un contributo, seppur minuscolo, dato alla sua
arte, vale più di qualsiasi altro premio o encomio.
E
poi, sono io a essergli grato per avermi indotto a scrivere storie
disneyane e per aver tradotto in immagini le situazioni descritte
nelle mie sceneggiature! Ancora oggi, nel riprendere in mano uno di
quei fumetti o nello sfogliare una delle tante ristampe, mi soffermo
ad ammirare il suo stile magistrale.
Ogni
volta, vengo catturato dalle prospettive, dal taglio delle
inquadrature, dai tratti d'inchiostro che fissano gli infiniti
dettagli dei panorami, dalla recitazione degli attori – da
Topolino, Gambadilegno, Minni fino alla comparsa che si affaccia in
una sola inquadratura – cui fa esprimere, col volto o con la
postura le medesime emozioni e i medesimi sentimenti di noi umani.
E'
lui che tiene in mano il filo della narrazione!
Da
cinquant'anni, con tecnica, etica e sensibilità inconfondibili,
Giorgio fornisce e continuamente aggiorna la grammatica di tutto il
fumetto disneyano, e non solo.
Lo
conosco da quarant'anni – era ottobre del 1976, ci eravamo dati
appuntamento a Padova, in occasione di una mostra del Messaggero dei
Ragazzi. Da allora ci lega un'amicizia estesa a mogli e figli. Ci
sentiamo al telefono e talvolta si cena insieme.
Magari
più tardi lo chiamo per informarlo di questa intervista.
Si
può dire che non c’è quasi sua storia che non si lasci ricordare
per qualcosa, vuoi la trama, vuoi qualche personaggio particolare o
situazione inusuale: la banalità o, se preferisce, il “mestiere”
sembra qualcosa di estraneo ad esse. Vista anche la frequenza
piuttosto bassa della sua produzione (nei momenti più prolifici
contiamo circa 3-4 storie l’anno), l’impressione è che si sia
messo al tavolo da scrittura solo quando aveva davvero qualcosa da
dire. E’ una impressione giusta?
Si,
non sono uno scrittore seriale. Scrivo quando mi si affaccia alla
mente un'immagine o un'ipotesi, informi magari, ma intriganti. Ci
lavoro sopra con pazienza, raccogliendo spunti e suggerimenti dalle
letture, dai film, come dalle esperienze quotidiane. Cerco di
costruire qualcosa che abbia una forma riconoscibile, che mostri un
po' di me. L'iterazione di moduli convenzionali non mi interessa né
mi diverte. Rifuggo gli stereotipi e i percorsi monotoni; mi
piacciono le storie ben strutturate: quelle che divertono e lasciano
un ricordo che dura nel tempo. In generale, apprezzo il detto
popolare “meglio pochi ma buoni”.
Come
abbiamo già detto, ha dato spazio a molti comprimari, li ha promossi
a protagonisti assoluti, ha scavato nel loro passato e nei loro
sentimenti eppure ha quasi sempre ignorato Pippo, che è la spalla
storica di Mickey. Come mai questa avversione (se di avversione si
può parlare)?
Come
potrei provare avversione per un personaggio smodatamente simpatico
come Pippo?
Se
l'ho usato raramente è perché, in molte mie storie thriller,
Topolino affronta il mistero da solo, contando unicamente sulle
proprie doti, senza quindi una spalla su cui appoggiarsi. Quando ho
ideato un giallo deduttivo – “Topolino in: ombre nella giungla”
- gremito di personaggi, Pippo risultava indispensabile e gli ho
assegnato la parte dell'assistente dell'investigatore che lui sa
recitare alla perfezione. Non
ho mai pensato a storie in cui fosse protagonista assoluto: sapevo
che non sarei riuscito a emulare l'humour che scorreva ne “I
mercoledì di Pippo” di Rudy Salvagnini.
“Topolino
e la villa dei misteri” è una storia inusuale (come tante sue
d’altra parte), ha un che di magico, di onirico: dietro una
parvenza di indagine si cela una avventura dolcissima e
apparentemente irrisolta. Una vicenda che si dipana su piani diversi,
a cui è quasi impossibile dare un significato pieno. Il lettore ne
rimane affascinato e coinvolto anche se non riesce a mettere a fuoco
il perché. Dopo tanti anni crede sia il caso di farcela spiegare dal
suo autore o è meglio lasciare il lettore con le sue sensazioni ,
senza rompere l’incantesimo?
Credo
che molti lettori della Villa dei misteri – almeno quelli che per
primi la conobbero nel numero 2341 – siano stati condizionati da
una noticina pubblicata in terza pagina.
In
essa si invitava il pubblico a partecipare a un gioco che consisteva
nello scoprire chi tra i personaggi della storia era il “responsabile
delle misteriose sparizioni”.
Beh,
non andai a disaminare le ragioni di quella inserzione redazionale,
ma ebbi il timore che la “caccia” a un colpevole, avrebbe
rischiato di distrarre non pochi lettori e di portarli fuori strada.
Certo,
è una storia atipica, enigmatica, elusiva, in cui - come ogni
scrittore di noir fa con l'intento di alimentare la suspense - avevo
disseminato falsi indizi, creato diversivi, confuso le piste e le
tracce.
Eppure
la trama (nel senso di disposizione causale del fatti) è semplice:
in una tiepida giornata di primavera, per i viali del parco
passeggiano mamme e baby sitter con i loro pargoli sul passeggino;
Topolino, avvolto dal tepore del sole e cullato dalle loro voci, si
addormenta su una panchina e sogna. Sogna
se stesso lattante, a spasso sulla carrozzina spinta dalla bambinaia,
e rivive il dolore che provò quando si avvide che il suo
orsacchiotto di pezza era caduto, o meglio, era sparito.
A
questo punto, il percorso onirico conduce il nostro eroe, adulto, in
una villa abitata da personaggi bizzarri, dove avvengono strani
fenomeni e dove le cose spariscono alla grande. Lì, nella villa dei
misteri e dei sogni, Topolino scoprirà la porticina magica che
scende nelle profondità dell'anima. Luogo in cui è ancora possibile
riabbracciare Pinsù, l'orsacchiotto inconsciamente cercato da
sempre.
Non
direi che è una storia incompleta, bensì una storia che prova a
spiegare, con l'aiuto di Topolino e attraverso allusioni e metafore,
quanto le esperienze del passato, dell'infanzia in particolare,
influenzino le scelte future nostre e degli eroi del fumetto.
Insomma,
ho ipotizzato che la peculiare curiosità di Topolino, l'istintivo
bisogno di cercare la verità, di indagare nei misteri e di provare
a risolverli, abbiano preso il via dalla “sparizione” di Pinsù e
dalla speranza di ritrovarlo, prima o poi.
Si
trattava di temi inediti in una storia disneyana; temevo un veto, ma
Ezio Sisto fu coraggioso e l'approvò.
Tante
storie con i topi, poche con i paperi seppur ben riuscite. A cosa è
dovuta questa preferenza?
Mettere
in scena e far recitare insieme tutti i personaggi di Paperopoli, con
le loro specifiche caratterizzazioni, senza risultare banale o
ripetitivo non è cosa facile. Per questo mi sono accostato solo
raramente al territorio narrativo in cui Cimino, Chendi, Pezzin
eccellevano.
Il
coinvolgimento e il divertimento nello scrivere le sceneggiature fu,
comunque, assoluto. Mi sono addirittura spinto a inventare un
personaggio nuovo - Elektra Watt, antica fiamma di Archimede -
protagonista di “Archimede e la testa fra le stelle”, pubblicata
su Minni
con
i disegni di Emanuele Barison.
Abbiamo
scoperto dal suo sito che ci sono alcune sue storie Disney inedite,
anche piuttosto lontane nel tempo: ci sono speranze di vederle
pubblicate prima o poi?
Sono
sceneggiature che furono commissionate e pagate. Sul perché e sul
percome della loro mancata pubblicazione non mi è mai stato detto
nulla, né io mi sono informato. E' probabile che nessun disegnatore
abbia mai avuto l'incarico di realizzarle.
Non
solo Disney, durante e dopo ha portato avanti altri progetti:
collaborazioni col Giornalino e con altri editori, lavorando con nomi
di assoluto livello come Alessandrini, Palumbo, Torti… , storie
ambientate nel mondo dell’arte, un web-comic e altro ancora. Ci
racconta qualcosa di questi suoi lavori extra-Disney?
da "La c'era l'America", dis.: Cinzia Ghigliano |
La
prima collaborazione extra Disney, è stata per un progetto audace,
ambizioso, pionieristico.
Alle
porte di Roma, in un antico casale, un gruppo di imprenditori aveva,
nel 1999, dato vita a un portale internet in quattro lingue
(www.bravitalia.com)
dedicato agli italiani emigrati in giro per il mondo.Tra
i vari prodotti che sarebbero stati messi a disposizione degli
utenti, c'era anche il fumetto.
Venni
convocato da uno dei promotori che mi chiese di scrivere la storia di
alcune famiglie di contadini che, sul finire dell'ottocento, si
imbarcano a Genova per le Americhe.
Per
la stesura grafica proposi Cinzia Ghigliano (premiata con lo Yellow
Kid al Salone dei comics di Lucca del 1978).
Sceneggiai
la prima puntata: 48 tavole di due grandi vignette ciascuna, che
Cinzia illustrò splendidamente.
Nel
2000 le tavole, una al giorno, cominciarono a essere pubblicate on
line; poi, a metà della programmazione, l'attività dell'impresa,
per problemi tecnici e finanziari, prese a rallentare fino a fermarsi
del tutto.
La
trasmissione di “La c'era l'America”, questo era il titolo del
lavoro mio e di Cinzia, si interruppe; comunque fu il primo web-comic
italiano!
Tre
anni dopo, il mio amico Paolo Barcucci, editore a Montepulciano, mi
chiese una biografia a fumetti di Antonio Vivaldi in cinque capitoli,
da far illustrare ad altrettanti disegnatori. Ottenni l'adesione di
due giovani professionisti - Maurizio Ribichini e Lorenzo Sartori -
quindi puntai a tre “maestri”: Giancarlo Alessandrini, Alarico
Gattia e Sergio Toppi. Mi
dissero si e io mi fregiai della loro collaborazione!
da "Antonio Vivaldi, una biografia a fumetti" dis.: Sergio Toppi |
Nel
2010, Legambiente decise di utilizzare il fumetto in una campagna di
sensibilizzazione verso la salvaguardia delle opere d'arte presenti
un po' ovunque nel nostro paese, e fui coinvolto nel progetto: dovevo
ideare alcune storie ispirate a indagini dei Carabinieri del reparto
tutela patrimonio culturale. Traendo
spunto da sei loro “operazioni” - che andavano dal recupero di
reperti archeologici al sequestro di un dipinto ottocentesco usato
dalla mafia come mezzo di pagamento della droga - firmai altrettante
sceneggiature che vennero illustrate da Giancarlo Alessandrini, Sara
Colaone, Marco Corona, Giuseppe Palumbo, Maurizio Ribichini e Fabio
Visintin.
dalla serie: "Carabinieri nell'Arte" dis.: Massimo Bertolotti |
Questa
esperienza mi permise di conoscere e di frequentare degli autentici
investigatori: i carabinieri dell'arte. Per
divulgare la loro attività, sconosciuta a molti, proposi a Stefano
Gorla, direttore del Giornalino,
di realizzare una serie di avventure che li vedevano sulle tracce di
falsari, di tombaroli, di ladri di libri antichi. Composta
da sette episodi, il primo disegnato da Massimo Bertolotti, gli altri
da Rodolfo Torti, la serie venne pubblicata tra il 2012 e il 2013.
In conclusione lascio la parola a lei: aggiunga qualsiasi cosa che avrebbe voluto dire e che in questa intervista non è uscita fuori (per colpa del sottoscritto). In cambio le chiedo un saluto per i tanti lettori che apprezzano la sua opera.
Continui
così, caro Santarelli! Ha buone chances di diventare un detective. Il
suo è stato un autentico interrogatorio di terzo grado, anche se
epistolare. Mi
ha perfino fatto dire cose che prima non avevo mai dichiarato!
Se
fossimo stati uno di fronte all'altro mi avrebbe puntato la lampada
sugli occhi?
Riconosco
che è stato un inquisitore abile (mi ha obbligato a ripensare a una
importante esperienza della mia vita) e competente: complimenti,
dunque, per la profonda conoscenza dei miei lavori!
A
tutti i fan di Topolino che hanno letto le mie storie e si sono
divertiti, e a quelli che, magari incuriositi da ciò che hanno
appena letto, si metteranno sulle tracce di vecchi numeri del
settimanale, dico, forte: GRAZIE e BUONE LETTURE! Ciao.